Scrivere per emozionare. Scrivere per informare. Scrivere per vivere. Ma soprattutto per sopravvivere in un mondo dove la materia ha ormai preso il posto dello spirito. E cosa fare se non cercare di distruggere la “cosa” per immergersi nel labirinto dei sogni sognanti nelle notti incensate di buio? Cosa fare se non leggere attentamente “Le notti senza respiro” (Algra Editore), ultima fatica letteraria di Enrico Scandurra, giornalista che ha fatto esperienza sul campo e che è alla sua terza pubblicazione. Una silloge poetica frutto di quattro anni di duro lavoro, di gavetta, nel corso dei quali l’autore non si è sottratto al confronto con chi ha più esperienza di lui.
Nell’attuale società, scrivere per informare in modo corretto e onesto, è divenuto un ricordo relegato a tempi lontani, di redazioni fumose, e corse contro il tempo per acchiappare, prima di altri, la notizia. Un mondo che sa tanto di letterario; recluso in aneddoti di vecchie glorie. da rispolverare nelle rimpatriate, per stringersi in un abbraccio e sentirsi ancora parte di qualcosa d’importante. Ma quel modo di fare giornalismo, di dare notizie accertate da fonti valide; quel giornalismo è stato seriamente messo alle strette dalla “stampa del copia-incolla”.
Gli ambienti sono quelli dove è bene avere un pc funzionante, una buona connessione, dopodiché, giù via a confezionar dati. Enrico Scandurra, invece, ha preso il meglio delle esperienze maturate in questi anni, e ne ha fatto un suo tratto distintivo. Certo, la strada è lunga, ardua e in salita. Lo scrittore però mostra carattere, tenacia e argomenti solidi. La scrittura non è fatta di solo talento, ma è duro mestiere. Fa i conti con ciò che siamo e con ciò che ci ritroviamo a sperimentare. Scandurra, mostra una solida preparazione classica. Essa lo definisce anche nello stile: nitido e cesellato. Uno stile attento ai dettagli. Qui le parole contano e la lingua chiede il conto. Non si lascia nulla d’intentato. Studio severo e prorompente curiosità si riuniscono nei suoi scritti.
La classicità del pensiero unitamente al desiderio di sperimentazione, secondo i moduli moderni – disciolti in apparenti versi liberi –, mostrano il lavoro da fabbro a cui i versi vengono piegati, per dire la sostanza stessa del suo stare al mondo. Le notti senza respiro, è la terza silloge poetica di Scandurra. La struttura è in “Nove Sezioni”, che s’aprono come se per ciascuna di esse, si fosse tenuto uno speciale battesimo. Qui, ci sono epifanìe scaturite da una meditazione non fine a se stessa, ma che s’attacca al lettore, costringendolo a entrare nel mondo dello scrittore. “Nove Sezioni”, ciascuna delle quali contiene un equilibrio numerico di quattro, cinque e sei liriche, per un totale di quarantacinque. Durante la lettura si procede, con voluta lentezza, nella scoperta dei gusti letterari del giornalista e scrittore. dalla classicità greco-romana all’attualità devastante di Poe e Majakóvskij, sino a lambire le rive di Spoon River e far ridestare la poetica di Dylan, e Fabrizio de André. Li ritroverete nei versi. Li avvisterete, camuffati, in titoli che sono citazioni: come Amore che vieni amore che vai. Ci sono gli omaggi ai grandi della storia: artisti, letterati. Eroi senza tempo, di cui è trascritta la mitologia, quali Che Guevara.
Nel testo di Scandurra, i versi sono passi essenziali e condizionanti per una metamorfosi dell’essere. La parola, così come è la parola poetica, è creazione scaturita da gioco e disciplina. Sono “Notti senza respiro”, perché lo scrittore soffoca nell’insonnia del dover dire; quasi che vari conati lo spingessero a liberarsi da se stesso, vomitandosi l’anima. Sentimenti, passioni, scaturiti dal tentativo di stare a galla e sentirsi affondare in un ritmo dettato dalla vita stessa. Struggimento per l’amata e amore per la sua terra; in un salto senza appiglio. Sotto, un materasso di parole attende che lui si distenda, ma gli impedisce di riposare. Quelle lettere, quelle parole, divengono spilli che pungono la carne e lo sospingono a non cedere al sonno, bensì, a giocare una partita a scacchi infinita. La Lingua batte verso l’italiano per tormentarlo, da tormentato. E ribatte, giocando con desiderio di bimbo, attaccato al seno della madre e legato al cordone del vernacolo di MADE IN SICILY. Si muove dentro la bocca, sfiorando i denti e mostrando l’impertinenza di uno schiocco “di versi bifronti, letti in un saliscendi dall’alto in basso e viceversa”.
La Vita, e il suo rovescio, la Morte, con l’occhio fisso sugli umani scellerati e i finti superuomini, lo assillano. Lo scrittore costruisce un reportage delle umane miserie, e dello splendore di nuovi e vecchi eroi, sublimandoli nei versi. Sono analizzati individui che non sanno d’essere coperti di fango. Viene cantata l’umanità dei diritti negati; straziata da guerre mosse da morte ideologie e pseudo religioni, che celano bassi istinti economici e s’arrampicano sulle vette del potere. Giganti dai piedi d’argilla, in una società forsennata, e ostinata nella ricerca del superficiale a ogni costo. Cuori di uomini e donne; occhi di bambini dall’infanzia negata. Il respiro si tramuta in ansito asmatico. L’unica terapia è la parola! Cardiotonico per lo spirito. La parola poetica restituisce il maltolto; rigenera i tessuti lacerati dai soprusi. Il confronto è necessario. Il poeta scende nelle viscere della propria interiorità. Si guarda dentro, impietoso. Solo dopo la discesa, potrà “dantescamente” risalire attraverso gradi e gironi, per offrire, trasformato, una scintilla di redenzione a se stesso e all’umanità stravolta. Gli accadimenti sono orchestrati mediante il verso, che è libero e leggero poiché risponde a un’accurata esecuzione formale. L’evidenza degli studi classici ritorna a illuminare la pagina. Figure retoriche, metrica e ricercatezza lessicale s’addobbano per danzare con il lettore, che in un rispolvero di echi bejaminiani, traduce e un po’ tradisce.