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lunedì, Novembre 25, 2024
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Per difendere i cristiani nel nord Iraq serve un’ingerenza umanitaria

Di fronte alle notizie e alle immagini che arrivano dal Nord Iraq, in merito al genocidio dei cristiani che si sta sempre più concretizzando, giustamente il professore Massimo Introvigne sulla “LaNuovaBQ” di oggi (M. Introvigne, Genocidio dei cristiani. L’ora della “guerra giusta?”, 9.8.14 LaNuovaBQ) auspica che al più presto si attivi una nuova “ingerenza umanitaria”, se non addirittura una “guerra giusta”. Il sociologo torinese riporta l’appello alla Comunità internazionale di Papa Francesco “perché si adoperi per proteggere quanti sono interessati o minacciati dalla violenza”. Peraltro i vescovi italiani per il 15 agosto hanno indetto una giornata di preghiera, però questo per Introvigne non basta, a questo punto occorre attivarsi subito per proteggere chi è minacciato dalla cieca violenza dei fondamentalisti dell’Isis. Pare che siano oltre centomila cristiani che rischiano di morire. Occorre un intervento armato, come sembra che stiano facendo i caccia americani bombardando obiettivi militari dell’Isl.

Del resto, per ragioni umanitarie Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al numero 2265, prevede “la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità”.

E non ci sono pacifismi che tengano, i Papi in passato si sono espressi in favore dell’”ingerenza umanitaria”, in particolare San Giovanni Paolo II, in occasione delle tragedie della Bosnia e della Somalia. Il 5 dicembre 1993, parlando alla Fao Papa Wojtyla affermava che «la coscienza dell’umanità, ormai sostenuta dalle disposizioni del diritto internazionale umanitario, chiede che sia reso obbligatorio l’intervento umanitario nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di interi popoli e gruppi etnici». Il 30 novembre 1993, ricevendo i ministri degli Esteri della Csce, il Pontefice polacco denunciava lo «scandalo del disinteresse di fronte ad eccessi inammissibili», ribadendo il dovere di ingerenza umanitaria quando «i diritti fondamentali di un popolo sono in gioco».

Nell’udienza generale del 12 febbraio 1994, San Giovanni Paolo II ribadiva lo stesso principio, invitando a «qualsiasi tipo di azione» – non «solo politica» ma «anche» militare – per «disarmare l’aggressore» quando minaccia di compiere stragi. 

Su questo tema “L’Osservatore Romano” riportava una dichiarazione del cardinale Segretario di Stato, Angelo Sodano: «Con il Papa abbiamo parlato delle preoccupazioni gravi per la Bosnia-Erzegovina. E abbiamo parlato un po’ del diritto di ingerenza umanitaria. Direi che gli Stati europei e le Nazioni Unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza, per disarmare uno che vuole uccidere. Questo non è favorire la guerra, ma impedire la guerra». Il giorno dopo, di fronte a polemiche di pacifisti, la Sala stampa vaticana ribadiva il pensiero del Papa, secondo cui è un «peccato di omissione» «non fare tutto il possibile – con i mezzi che le Organizzazioni Internazionali sono in grado di mettere a disposizione – per fermare l’aggressione contro popolazioni indifese», e in questi casi non intervenendo adeguatamente si diventa «complici del male».

Dunque soprattutto oggi dopo la canonizzazione di Giovanni Paolo II, il suo Magistero acquista ancora maggiore autorevolezza. “Dobbiamo davvero essere tutti attenti – scrive Introvigne – a non diventare «complici del male» per via di omissione e di inazione. Contro i carnefici, lo insegnano non solo i Pontefici ma la storia, le belle parole non bastano”.

Ma quello che indigna maggiormente è la pigrizia dell’Europa, del mondo occidentale, dei cristiani, dei cattolici, che nonostante le notizie e le immagini raccapriccianti dell’assassinio di uomini, donne e bambini, crocifissi o fatti a pezzi non si riesce ancora a smuovere le loro coscienze. A questa indifferenza risponde un libro che ho letto e recensito qualche anno fa, “Il Sangue e l’agnello. Reportage fra cristiani perseguitati in Medio Orientedi Rodolfo Casadei, inviato speciale del settimanale Tempi, pubblicato da Guerini e Associati (Milano 2008) .

Casadei nell’introduzione al suo libro tenta di individuare le ragioni della tiepidezza europea, per lui sono almeno tre.La 1 di natura storica:“ in Europa occidentale la Chiesa non ha mai avuto il profilo di una comunità perseguitata, se non in momenti circoscritti; molto più spesso è stata percepita da intellettuali e movimenti di opinione come un severo custode dell’ordine costituito e un’alleata dei poteri autoritari, erede di una tradizione violenta e repressiva che ha avuto i suoi picchi dannati nell’Inquisizione e nelle condanne a morte degli eretici. Pertanto la Chiesa che ora è diventata perseguitata, per i pensatori e uomini politici, significa prendere atto ma solo questo.

La 2 ragione per Casadei è che i cristiani perseguitati in Medio Oriente, “hanno la sfortuna aggiuntiva di essere perseguitati non dalle potenze imperialiste e dai loro alleati, ma dalle vittime dell’imperialismo. In questo caso solidarizzare con loro implica “una condanna nei confronti dei ‘resistenti’ che combattono per esempio contro l’occupazione dell’Iraq, da parte degli anglo-americani e dei territori palestinesi da parte degli israeliani”. Certo oggi gli americani non ci sono più, ma resta sempre Israele. La terza è sempre di ragione politica, i cristiani iracheni o quelli turchi non sono strumentalizzabili per la propaganda tradizionale antiamericana ma nemmeno in funzione filo-occidentale e antimuslmana. Anche perché le Chiese cristiane “non mancano di sottolineare le responsabilità americane nel naufragio dell’Iraq e di ribadire la contrarietà alla decisione presa nel 2003 di mettere fine al regime di Saddam Hussein con un intervento militare dall’esterno”. E non sta succedendo la stessa cosa nella Libia del dopo Gheddafi?

Concludo con una dichiarazione rivolta ai cosiddetti pacifisti, ai pigri, che non hanno voglia non dico di combattere, ma di impegnarsi nella testimonianza della propria fede e magari della propria cultura. Sono le riflessioni dell’arcivescovo caldeo di Mosul, fuggito a Erbil, monsignor Amel Nona, raccolte dall’inviato Lorenzo Cremonesi del Corriere della Sera il 10 agosto e riprese in un servizio di Marco Invernizzi: “Ho perso la mia diocesi. Il luogo fisico del mio apostolato è stato occupato dai radicali islamici che ci vogliono convertiti o morti. Ma la mia comunità è ancora viva». Sono parole di una persona ferita ma non rassegnata: «Per favore cercate di capirci – dice a noi occidentali –. I vostri principi liberali e democratici qui non valgono nulla. Occorre che ripensiate alla nostra realtà in Medio Oriente perché state accogliendo nei vostri Paesi un numero sempre crescente di musulmani. Anche voi siete a rischio. Dovete prendere decisioni forti e coraggiose, a costo di contraddire i vostri princìpi. Voi pensate che gli uomini sono tutti uguali. Ma non è vero. L’islam non dice che gli uomini sono tutti uguali. I vostri valori non sono i loro valori. Se non lo capite in tempo, diventerete vittime del nemico che avete accolto in casa vostra”. (M. Invernizzi, Pacifismo e ingerenza umanitaria nella piana di Ninive, 10.8.14, comunitàmbrosiana.org)

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