Lo abbiamo visto (quasi) tutti al cinema. Adesso “Elephant Man” è diventato in Italia un apprezzato spettacolo teatrale, in scena nel Teatro Vittorio Emanuele di Messina dal 9 al 12 maggio. Il testo è firmato da Giancarlo Marinelli ed è tratto dal racconto di Frederick Treves (il medico che curò e fu molto vicino a Joseph Merrick, l’uomo elefante); lo stesso Marinelli è il regista. Nel cast Daniele Liotti (uno dei belli del cinema italiano e della televisione) si cela sotto l’orribile aspetto del protagonista. Con lui recitano Ivana Monti, Debora Caprioglio e l’attore messinese Rosario Coppolino. Scene di Andrea Bianchi/Forlani, costumi di Marta Crisolini Malatesta, disegno luci di Daniele Cavino, musiche di Angelo Valori; la maschera dell’uomo elefante è stata realizzata da Sergio Stivaletti. La produzione è della Compagnia Molière, diretta da Debora Caprioglio, con il patrocinio della Regione Veneto. “Elephant Man” avrà un calendario diverso dal solito per consentire mercoledì 8 maggio lo svolgimento del concerto di Franco Battiato. Eccolo: 9 maggio, ore 21 turno A; 10 maggio, ore 17 turno studenti, ore 21 turno B; 11 maggio, ore 17,30 turno C, ore 21 turno D; 12 maggio, ore 17,30 turno E. “Elephant man” non è soltanto un capolavoro della cinematografia firmato nel 1980 da David Lynch e interpretato da John Hurt, Anthony Hopkins e Anne Bancroft. È soprattutto un racconto perfetto, quasi in presa diretta (la storia è realmente accaduta), di un giovane chirurgo, Frederick Treves, che salvò l’Uomo Elefante dalle torture dei “freak show” della Londra di fine Ottocento e riuscì a ottenere per lui perfino la protezione della stessa Regina Vittoria. Perché portare in teatro la vera storia di Joseph Merrick, mettendola in scena, per la prima volta, in uno spettacolo di prosa? «È presto detto – dice Marinelli – in un momento storico come quello attuale in cui l’estetica del corpo, della “bellezza a tutti i costi”, sono divenuti un motivo perpetuo ed ossessivo, non senza conseguenze finanche drammatiche, (si pensi ai danni provocati dalla chirurgia estetica, o a patologie impulsive e compulsive letali come la bulimia e la anoressia), portare sulla scena una storia d’amicizia tra un brillante ed ambizioso chirurgo e “un mostro apparente”, capace però di regalare agli altri un universo di poesia e di bellezza, significa sovvertire il putrido sistema di vuote apparenze, di fasulle perfezioni, di oscene ostentazioni artificiali a cui siamo ormai assuefatti: la storia di Joseph Merrick è in fondo la storia della nostra ipocrisia, del nostro proverbiale rifiuto ad accettare “l’altro da noi”; della nostra ostinata impotenza ad “andare oltre” il corpo, per rinchiuderci stomachevolmente in una tanto rassicurante quanto inutile culto della bellezza omologata. Ché la vita di Jospeh Merrick è la vita di ognuno di noi; la tensione di ciascuno ad essere amato non tanto per ciò che è ma per ciò che avrebbe voluto essere. Ché la morte di Jospeh Merrick è la morte di ognuno di noi; è il sogno di poter lasciare la terra nel ricordo di chi ci ha amati perché, al di là della “mostruosità” dei nostri luoghi oscuri, esiste sempre una luce eterna, che ha lo stesso tempo di riproduzione di una stella. Appartiene ad ogni uomo che, provando a dormire in modo diverso, ha cercato, in una notte di secoli che si ripetono, di essere migliore». «Io non sono un animale! Sono un essere umano! Sono un… uomo!», gridò Merrick per sfuggire a una folla ignorante che lo derideva. “Elephant Man”, dunque, è uno spettacolo sull’umanità, la dignità e il dolore che si nascondono sotto una maschera