Gran parte della nostra tradizione si basa sul culto dei morti perché senza ricordare i morti viene a mancare anche l’interesse per l’uomo in quanto la morte fa parte parte della vita, come la nascita. Nel passato l’interesse per i defunti è stato molto vivo dalle nostre parti, centrato sul fatto di dover tenere il rapporto con i nostri cari defunti, che dal cielo potevano pregare per i vivi, i familiari che restavano sulla terra. C’era la necessità di farne memoria continua e di riproporre, in qualche modo, il contatto con le persone amate attraverso varie pratiche: dalla costruzione delle cappellette alla cura dei sepolcri, dalla visita domenicale al camposanto all’attenzione nei giorni della memoria, dalle intenzioni della messa alle offerte ai bisognosi. Nel paese di Savoca, anticamente si è pure praticata la conservazione dei morti, soprattutto per i nobili, e delle reliquie, che venivano riposte nelle catacombe, come le mummie del convento dei Cappuccini.
Nel comprensorio jonico si usa ancora oggi mettere nella cassa funebre del defunto gli oggetti più cari del morto, soprattutto a carattere religioso come le corone, abitini e segni di appartenenza ad associazioni laiche o religiose. Di certo sono venute a mancare tante usanze ma la ricorrenza dei morti continua a mantenere il suo fascino per stabilire un collegamento tra la sfera celeste, ove ci si augura possano dimorare in eterno i propri morti, e la realtà del cimitero che si tiene illuminato dalla luce delle lampadine o dei ceri ed abbellito dai fiori sulla tomba. Proprio a queste modalità si delegano i sentimenti di culto dei morti, accompagnandole con la preghiera, la partecipazione alla messa, le offerte e le opere di carità per mantenere un ricordo vivo dei propri cari.
La “grande festa dei santi”, ancora oggi dalle nostre parti, come una volta segna una dolce comunione tra i viventi ed i defunti, mediante la veglia, la preghiera, la messa di suffragio, il decoro del lutto, la visita dei morticini tra la notte dal 1° al 2° novembre, nella casa dei loro parenti, dove si prepara la tavola imbandita, con pranzi e squisite leccornie, tipiche del tempo, affinché i poveri morti si possano soddisfare a sazietà e a loro piacimento. L’indomani tutto quello che rimaneva sulla tavola doveva essere distribuito ai poveri, in più si trovavano i regalini e dolcini per i bambini, messi dai genitori, per educare i figli ad avere un buon ricordo dei familiari mancanti. Inoltre si riscontrano ancora alcune tracce del rapporto con la dimensione ultraterrena nell’intimità della casa, quando sui mobili si raccolgono le immagini dei cari estinti, altari domestici con fiori e lumini votivi. Un’altra caratteristica della tradizione, ormai del tutto scomparsa, era il piangere collettivo dei parenti e vicini per accompagnare il trapasso dell’anima, tutti vestiti di nero e con i capelli sciolti, recitando una cantilena che durava tutto il periodo del lutto, tessendo a voce alta le doti e le virtù del morto. Tuttavia, in qualche caso, resta la buona usanza di stare vicino ai parenti, portando cibo e bevande da consumare. Queste tradizioni vanno considerate non tanto come usi e costumi inutili, ma momenti significativi e pieni di gioia che caratterizzano la “Festa dei morti”, rivelandosi tempo di condivisione, di attesa e di incontro in cui, anche se per qualche giorno, la morte fa meno paura e pienamente sta dentro la vita.