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Da Paolo VI a Papa Francesco, la chiesa è una compagnia “semper reformanda” ma nella continuità

Abitualmente certi giornalisti, scrittori, anche i cosiddetti vaticanisti, da troppo tempo contrappongono i vari pontefici, soprattutto quelli del dopo Concilio Vaticano II. Spesso li fanno passare per progressisti, poi per tradizionalisti, per conservatori, per innovatori, per reazionari o addirittura per rivoluzionari. Difficilmente cercano di sforzarsi di vederli si come riformatori ma anche soprattutto come continuatori che si passano il testimone per guidare al meglio la Chiesa che fu di Nostro Signore Gesù Cristo.

Certamente la Chiesa ha bisogno di confrontarsi con la storia, con il mondo, infatti non può essere vista come una istituzione immodificabile che vive fuori del proprio tempo. Credo che si possa sostenere che i pontefici sono stati tutti dei riformatori ma sempre rispettando la tradizione, lo è stato perfino San Pio X, passato alla storia come un mastino che ha soffocato le giuste istanze del modernismo. Peraltro, recentemente ho letto e recensito l’ottimo libro pubblicato da Sugarcoedizioni (2014) di Oscar Sanguinetti dove papa Sarto appare come un restauratore-riformatore che certamente guardava al futuro. Inoltre anche attraverso lo studio, che ho proposto in otto puntate, di una ventina di testi riguardanti la figura di San Giovanni Paolo II, ho potuto constatare diverse similitudini con tutti gli altri pontefici, soprattutto con l’ultimo, Papa Francesco.

Tuttavia, forse, il papa che più di ogni altro è stato tacciato di progressismo che abbia rotto con il passato, è stato il beato Paolo VI, per la verità fino a qualche tempo fa ero caduto anch’io in questa trappola. Invece a ben vedere leggendo il ricco magistero di Paolo VI, è stato un papa che ha continuato a difendere quello che bisognava difendere e ad innovare dove bisognava farlo.

Infatti molti hanno scritto che Paolo VI accettasse in toto la Modernità, questo è vero, soltanto che della modernità ha accettato certe domande che essa ha posto e non tutte le risposte che ha dato. In questi giorni sto leggendo una interessante biografia su Paolo VI, di Giselda Adornato, dove il sottotitolo è appunto: “Il coraggio della modernità” (San Paolo 2008). A breve spero di presentare il testo su queste pagine.

A questo proposito, in un recente intervento su LaNuovaBQ.it, , il professore Massimo Introvigne propone un’ottima riflessione sull’argomento partendo da uno dei più importanti discorsi del pontificato di Benedetto XVI, fatto a Lisbona nel 2010. Il papa affermava che la Chiesa attraverso il Vaticano II, ha trasfigurato e superato “le critiche che sono alla base delle forze che hanno caratterizzato la modernità, ossia la Riforma e l’Illuminismo. Così da sé stessa la Chiesa accoglieva e ricreava il meglio delle istanze della modernità, da un lato superandole e, dall’altro evitando i suoi errori e vicoli senza uscita”.

Pertanto secondo Introvigne “della modernità occorre assumere le domande, discernendo invece criticamente le risposte (…) Il Magistero della Chiesa ha dovuto prendere le distanze sia da un atteggiamento ultraconservatore, che rifiuta di assumere le domande della modernità – Benedetto XVI lo chiamava «anticonciliarista», con riferimento al rifiuto del Vaticano II – sia da un atteggiamento che lo stesso Papa Ratzinger chiamava «progressista», intendendo con questo termine l’accettazione acritica e ingenuamente entusiasta delle risposte della modernità e non solo delle domande”. (M. Introvigne, “Così Paolo VI affrontò e vinse la ‘Modernità inquieta’”, 13.10.14, LaNuovaBQ.it)

A questo punto il reggente vicario nazionale di Alleanza Cattolica,propone un interessante itinerario che proverò a riassumere. Introvigne colloca il magistero del beato Paolo VI come ispiratore dei pontefici successivi e quindi in continuità. Infatti Paolo VI ha dovuto affrontare subito quegli atteggiamenti “anticonciliaristi” e “progressisti”. In un primo tempo si era convinto che i pericoli maggiori per la Chiesa derivavano dagli anticonciliaristi, cioè dagli ultraconservatori che si rifiutavano d’incontrare l’uomo moderno e farsi carico delle sue domande. Si tratta in particolare dei cosiddetti “tradizionalisti”, legati a monsignor Marcel Lefebvre. Questi non si sono limitati a fare legittime domande su certe preoccupazioni per le derive del postconcilio, ma hanno assunto un atteggiamento scismatico rischioso per l’unità della Chiesa. Poi nella seconda fase del pontificato, Paolo VI “si rese conto che – per quanto i rischi insiti nella deriva anticonciliarista non andassero sottovalutati – la minaccia maggiore veniva dalle frange ribelli a Roma del mondo progressista. Un punto di svolta fu la rivolta, inaudita e senza precedenti per estensione e intensità, contro la sua enciclica Humanae vitae del 1968, il «Sessantotto della Chiesa» (…)”.

Successivamente, poi Paolo VI usò la formula famosa e drammatica della “autodemolizione” della Chiesa, “come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio”. Mentre nel 1972 avrebbe aggiunto: Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza».Qui Paolo VI, ne attribuiva la responsabilità al Diavolo, la cui opera che mira a creare divisioni nella Chiesa ci è stata ricordata tante volte da Papa Francesco: “da qualche fessura – affermava il beato Paolo VI – “è entrato il fumo di Satana nel Tempio di Dio”.

Essenzialmente il professore torinese individua quattro punti dove si può accostare il magistero di papa Paolo VI sulla modernità ai successivi pontefici. Il 1° è quello dell’incontro tra fede e ragione. Il beato credeva nel dialogo con gli uomini di pensiero e di scienza, anche se non mancava di metterli in guardia di fronte all’inganno e alla deformazione di certi pensieri. Introvigne ricorda San Giovanni Paolo II che definiva la fede e la ragione, le ali che permettono all’uomo di volare .

Il 2° punto è quello della giusta ermeneutica per il Concilio, che si declina nella formula dell’”ermeneutica della riforma nella continuità”, che chiede di accettare lealmente gli elementi di riforma del Concilio, leggendoli però in continuità e non “contro” il Magistero precedente, che è stata coniata da Benedetto XVI. “Ma la nozione – scrive Introvigne – si trova già nel beato Paolo VI. In un famoso discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 23 giugno 1972, il beato denuncia «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto». L’interpretazione «falsa e abusiva» del Concilio non ha di mira nulla di meno, secondo Paolo VI, che una «dissoluzione del magistero ecclesiastico […] prescindendo dalla dottrina, sancita dalle definizioni pontificie e conciliari. Non si può non vedere che tale situazione produce effetti assai penosi e, purtroppo, pericolosi per la Chiesa”. 

Altro tema ricorrente tra i pontefici successivi a Paolo VI, e siamo al 3° punto, è la centralità della questione bioetica. Il 5 marzo 2014, nell’intervista che ha rilasciato a Ferruccio de Bortoli per il Corriere della Sera, a una domanda se non fosse venuto il momento di mandare in pensione l’enciclica Humanae vitae, Papa Francesco ha risposto che, al contrario, “la genialità [di quell’enciclica] fu profetica: ebbe il coraggio di schierarsi contro la maggioranza, di difendere la disciplina morale, di esercitare un freno culturale, di opporsi al neo-malthusianesimo presente e futuro”.

Certo Il beato Paolo VI non poteva prevedere – scrive Introvigne – tutti gli orrori di oggi, dall’utero in affitto alla fecondazione eterologa e alle scuole trasformate in «campi di rieducazione» per l’ideologia del genere, secondo un’espressione del cardinale Angelo Bagnasco ripresa da Papa Francesco in un discorso dell’11 aprile 2014 all’Ufficio Internazionale Cattolico per l’Infanzia e messa in relazione agli «orrori della manipolazione educativa che abbiamo vissuto nelle grandi dittature genocide del secolo XX» e che si ripresentano sotto forma di «pensiero unico».

Altro tema, il 4° punto,che possiamo trovare sia nel magistero del beato Paolo VI che in quello dei pontefici successivi è la Nuova evangelizzazione. Il 22 giugno 2013 Papa Francesco ha ricevuto in udienza i pellegrini della Diocesi di Brescia, venuti a Roma per celebrare il cinquantenario dell’elezione pontificia del loro conterraneo, il beato Paolo VI. Il discorso è stato occasione per richiamare l’attenzione sull’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975, definito da Francesco il più grande documento del Magistero di tutti i tempi sulla pastorale, e che gli storici riconoscono come fonte e origine della nozione di «nuova evangelizzazione» poi sviluppata da san Giovanni Paolo II.

Per la nuova evangelizzazione, anche qui anticipando un tema caro a Benedetto XVI e ripreso da Papa Francesco nella Evangelii gaudium, il beato Paolo VI voleva che si avvicinassero gli uomini e le donne del nostro tempo anche tramite la via pulchritudinis, la via del bello e dell’arte, senza escludere un dialogo – naturalmente, mai separato da un discernimento – con l’arte moderna, come mostrano non solo i testi di Papa Montini ma gli incontri con artisti e le raccolte artistiche da lui volute e promosse.

Pertanto, trovare discontinuità, rotture, tra i vari pontefici è solo un gioco che possono fare solo certi giornalisti o scrittori che magari non hanno mai letto integralmente almeno i documenti più importanti dei nostri pontefici. Noi, invece, che siamo cristiani fedeli alla Madre Chiesa, non possiamo permetterci di assecondare certe idiote ricostruzioni.

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